Ancora lessico.
Fino a che punto si può dare una (sacrosanta) rappresentanza “democratica” a tutte le opinioni? E come è possibile trovare il giusto equilibrio fra rappresentanza e capacità di sintesi e decisione, facendo delle discussioni un momento propositivo e non una interminabile canea in cui prevalga chi strilla più forte?
Tempo fa ho ricevuto l’incarico di scrivere una testimonianza su un lavoro di gruppo. I temi sono stati discussi in un incontro fra colleghi, poi ho cercato di riportare, valorizzandolo, il contributo di ciascuno. È servita più pazienza che abilità, e alla fine tutti sono rimasti soddisfatti.
Il lavoro è riuscito bene per tre motivi: non si trattava di una cosa importante (tutti preferivano essere collaborativi anziché provare ad imporsi), c’era una base di conoscenza comune da comunicare, le persone avevano fiducia nella mia capacità di produrre un documento che interpretasse fedelmente le loro intenzioni e consentisse di ottenere in fretta un risultato positivo.
Un esercizio di democrazia elementare, in cui tutte le opinioni sono state rispettate, che tuttavia mette in luce le debolezze dei sistemi di rappresentanza nella realtà.
Non disponiamo di meccanismi condivisi di aggregazione e classificazione delle diverse idee per raggiungere un compromesso produttivo.
Quando i problemi sono importanti e sono in gioco gli interessi particolari, “democrazia” spesso significa cercare di confondere gli altri, con dibattiti lunghi e cavillosi, per prevalere.
E se da un lato è vero che, per la necessità di agire, le decisioni devono essere prese da una persona sola o da un gruppo ristretto, dall’altro spesso manca (raramente a torto) la fiducia nell’onestà e nella capacità di perseguire gli interessi comuni o più meritevoli da parte di chi ci rappresenta.
Un po’ sconfortato mi chiedo: come si esce da questo circolo vizioso? Come si può riuscire a riappropriarsi di una rappresentanza autentica?
Nessun commento:
Posta un commento