domenica 15 novembre 2009

Produzione, consumo, conversazione e marketing 2.0

Da quando bazzico il mondo del 2.0 ho visto iniziative di vario genere. Alcune di carattere marketing/promozionale/pubblicitario, altre di carattere informativo, altre con la finalità di creare gruppi di consumatori meglio preparati.

Va tutto bene, io faccio le mie scelte, rivendico per tutti il diritto di fare le proprie ed eventualmente cambiarle, e credo che su link, banner pubblicitari, etc. ognuno sia chiaramente libero di gestire il proprio spazio in rete come meglio crede, purché renda ben chiaro ai potenziali visitatori che cosa stia succedendo.

L’unica cosa di cui mi senta un purista nel web 2.0 è la trasparenza.

Mi permetto di svolgere qui una considerazione di carattere economico, usando termini assolutamente comprensibili, facilmente trasponibile anche ad altri ambiti.

Si parla di domanda (il lato dei consumatori) e offerta (lato delle aziende).
L’idea di fondo è che “più” sia “meglio”: se posso avere tre paia di scarpe anziché uno o due, una casa o un giardino più grandi, più cibo, sto meglio.
Se supponiamo, realisticamente, che la “soddisfazione” che ricavo dalle quantità iniziali di un bene o un servizio (ad esempio il primo paio di scarpe, i primi tre locali di un appartamento) sia maggiore di quella delle unità successive (ad esempio il terzo paio di scarpe o ulteriori metri quadrati di casa) e che decresca a poco a poco, sarò disposto a pagare sempre meno per acquistare quantità maggiori.
Le aziende, invece, sono disposte a fornire maggiori quantità di beni o servizi a prezzi crescenti.
Consumatori e aziende che non si conoscono si incontrano in un mercato: il luogo in cui, in teoria, si determina un prezzo di equilibrio, al quale la quantità domandata dai consumatori con soddisfazione è uguale a quella prodotta con soddisfazione dalle aziende.

Poiché però il prezzo che, come consumatore, sono disposto pagare per le unità aggiuntive di un bene è decrescente all’aumentare della quantità, al prezzo di equilibrio si determina un “surplus”, cioè la differenza fra quanto sarei stato disposto a pagare al massimo e quanto ho effettivamente pagato.
Per esempio, ipotizziamo che vada a comprare dal mio fornaio preferito 5 brioches pagandole 1 euro l’una. In teoria, magari, sarei stato disposto a pagare 5 euro la prima brioche, 4 la seconda, 3 la terza, 2 la quarta e 1 la quinta.
Ma il fornaio non lo sa e troviamo un prezzo di equilibrio a 1 euro. Se lo avesse saputo (e io avessi avuto abbastanza soldi), mi avrebbe chiesto 5+4+3+2+1=15 euro per le brioches, in realtà, invece, ne pago 5 e il mio surplus è di 10 euro.

Supponiamo che in qualche modo (un’indagine, pettegolezzi di quartiere, chiacchiere ascoltate per caso fuori dal negozio, social networking, forum su Internet) il fornaio venga a sapere che io sono molto goloso, o che le sue brioches mi piacciono più di qualunque altro dolce, o che sarei molto felice di vederle migliorate dalla ricopertura con una glassa sottile. Potrebbe sfruttare questa informazione per modificare leggermente le brioches secondo i miei desideri (ma non necessariamente) e alzare i prezzi in modo tale che il nuovo prezzo di equilibrio sia di 2 euro.

Adesso, se i miei gusti e le mie disponibilità finanziarie non sono cambiati, il nuovo equilibrio mi vedrà acquirente di 4 brioches a 2 euro l’una. Risultato? Spendo 8 euro, 3 in più di prima, per avere una brioche in meno rispetto a prima. Il mio surplus si riduce a (5+4+3+2)-8=6.

Il punto è proprio questo. Quando comunichiamo, nel mondo reale, in rete, nei social network o nei forum, o cercando di costruire piattaforme in cui i consumatori interagiscono con le aziende (o i politici, o chiunque altro), vengono rivelate delle informazioni che possono essere usate per migliorare la qualità di prodotti o servizi, ma anche per aumentarne i prezzi.
È vero che la “soddisfazione” delle persone non si misura solo in termini monetari, (l’esempio è comunque valido anche in altri ambiti, ad esempio le nostre preferenze possono essere sfruttate a fini politici), ma nell’esempio di prima si nota come il consumatore risulti impoverito: con meno beni, pagati più cari, “espropriato” di una parte del suo surplus. Siamo sicuri che l’eventuale piacere di un po’ di glassa sulla brioche valga così tanto?

Se i produttori sono bravi a raccogliere informazioni sul mercato e sui clienti, a combinarle per soddisfarli con prodotti azzeccati, tanto meglio: si saranno meritati il loro profitto. Ma lasciamoli faticare un po’.
Non capisco perché debbano essere i consumatori a regalare, o quasi, alle aziende informazioni su di sé, sulle loro storie e preferenze, a fini commerciali.
Non capisco come questo possa dare forza ai consumatori (non stiamo parlando di un forum di consumatori o di gruppi che si scambiano orizzontalmente opinioni sui prodotti).
Soprattutto il valore affettivo ed emozionale attribuito ad alcuni prodotti mi sembra un dato altamente sensibile. Esperienze come lo storytelling sono affascinanti da molti punti di vista, ma possono essere rischiose per i consumatori, sotto il profilo commerciale.

Sono curioso di vedere come evolverà il Talking Village, perché l’opinione che mi sono formato via web di Flavia e Piattini è positiva e credo possano fare un buon lavoro. Ma non bisogna dimenticare che gli utilizzatori del marketing della conversazione dovrebbero essere le aziende, che non si suppone cooperino con i loro clienti, al di là dei buoni propositi e, ogni tanto, di una spruzzata di marketing etico.

5 commenti:

  1. la comunicazione sui prodotti, sulla politica e su qualunque altra cosa tende ad essere manipolante, perché cerca di convincerti di qualcosa. dal mio punto di vista più ne sono consapevole e meno mi lascio manipolare, per questo per me è importante ogni tanto decriptare i messaggi sottesi a ogni tipo di comunicazione. (ricordati comunque che io non vengo dal marketing ma dalla letteratura, e quando ho davanti un testo, di qualsiasi tipo, lo considero innanzitutto un messaggio).
    l'idea del talking village come del marketing della conversazione e di un certo filone del marketing attuale è quello di una comunicazione dove oltre all'attore comunicante marchio ci sia anche l'attore consumatore che può dire la sua. ricordati che se i nostri desideri bisogni sono quelli di un mondo più giusto non è detto che un'azienda che vada in questa direzione mi debba fare schifo.
    detto questo, io vengo da un mondo che ha sempre demonizzato la pubblicità a livello culturale, anche se ne sono stata sempre affascinata. flavia mi ha dato la possibilità di sperimentarmi come creativa in quest'ambito in un progetto che a me pare innovativo e che si inserisce in un filone più generale nel web attuale. la cosa mi incuriosisce molto. anch'io ho molti dubbi, perchè culturalmente sono abituata a pensare che non ci sia possibilità di dialogo, ma le cose più interessanti le ho fatte quando ho ribaltato i miei schemi mentali. non ho la palla di vetro per capire come andrà a finire, ma io sono troppo curiosa per non provarci...comunque lo sguardo critico fa sempre bene, non ce lo fare mai mancare:))

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  2. bene, siamo tutti curiosi :), gambe in spalla e ricordiamoci che le montagne si scalano un passetto alla volta (ormai mi tocca dirlo in ogni commento!) e in questo caso poi, si scala se hai la fiducia sia di un'azienda sia di una community che danno una bella spinta verso l'alto. l'uso del termine marketing - se riusciamo a liberarlo dai pregiudizi negativi - non dovrebbe essere prerogatica di una nicchia di persone ("quelli delle aziende") ma dovrebbe essere patrimonio comune: come pIattini ha dimostrato nel suo post ci sono un sacco di esempi in cui noi utenti 2.0 il marketing lo facciamo già, eccome, e molto meglio di molte aziende.
    venendo alla tua tesi molto interessante, io sarò di formazione economica molto più terra terra, ma mi è sempre parso che il surplus nel prezzo sia soprattutto il profitto di chi vende a un prezzo maggiore di quello di equilibrio. e quindi lo scambio di informazioni per rendere i mercati più trasparenti di solito va a vantaggio, non a svantaggio, dei consumatori. ne parla un bel libro come "intelligenza ecologica" di Goleman.
    Penso che un'azienda possa diventare più etica in tutti i suoi processi (produzione e commercializzazione) solo se sa cosa vuole veramente la community, quindi il fatto che qualcuno glie lo dica con delle storie o in qualunque altro modo è più un'opportunità e non un pericolo...
    comunque grazie do minore, è una discussione veramente interessante.

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  4. caro do minore, il tuo post è molto preciso e tocca "il" punto nodale della questione: le aziende hanno come scopo (non perché siano "brutte, sporche e cattive" ma semplicemente perchè è il loro scopo ultimo - si dice "mission", mi pare?) quello di fare profitti e farne SEMPRE di più. Tradotto sul lato dei consumatori, questo vuol dire che qualcuno tenta ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno di tirar fuori dalle nostre tasche più denaro possibile, ben al di là della domanda e/o dei desideri di ognuno. Crea ulteriore domande (spesso artificiose, spesso di merci di cui non avevamo bisogno) per dragare ulteriore ricchezza che il cittadino perde, beninteso in cambio di una merce. Sia chiaro, non sto dicendo che nessuno ruba niente, ti danno qualcosa, gli cedi il tuo denaro. Qualcuno l'ha spiegato molto meglio di come riesco a farlo io, anzi negli ultimi tempi la pubblicistica internazionale si interessa di nuovo a quel filosofo e, ascoltate e leggete, c'è praticamente unanimità nel considerare che quel filosofo aveva ragione nelle sua analisi. Ha solo sbagliato previsioni: errore imperdonabile.
    Tutto il resto, compreso il meccanismo del plusvalore che tu spieghi in maniera perfetta, almeno dal punto di vista del consumatore (perché fondamentali sono i punti di vista e oggi anche i consumatori ragionano col punto di vista delle aziende... e buonanotte al filosofo di cui sopra), lo condivido come mia filosofia di vita quotidiana: quando mi rendo conto che il fornaio ha messo la glassa che mi piace tanto e ha aumentato il prezzo, io non sono contento ma cambio fornaio perché il prezzo equo (quello che sono dispoto a spendere) era quello senza glassa. Quando il mio gestore telefonico mi cambia piano dicendo che col nuovo piano il mio cellulare farà anche il caffè al mattino, io cambio gestore o piano (saltabecco continuamente tra abbonamenti e ricaricabili, a seconda di ciò che ha il prezzo equo per me) perché il caffè lo faccio con la moka e mi costa meno.
    Questo per me è spirito critico... ma so di essere una specie di "matto" e non vorrei che qualcun altro possa ammalarsi del mio stesso virus. :-))
    Comunque il tuo post è ben informato, preciso, circostanziato. Per quel che vale, lo condivido appieno: grazie!

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  5. Tutti: grazie per i vostri commenti!

    Piattini: capisco perfettamente il tuo punto di vista e credo che stiate affrontando un'avventura molto stimolante. Per quanto mi riguarda, non demonizzo le aziende, anzi, aggiungerei che non le demonizzo neanche quando, in maniera perfettamente legittima, decidono di non andare nella direzione di una maggiore etica, né dei desideri dei consumatori (che riguardino un mondo più giusto o semplicemente prodotti più adatti alle proprie esigenze). Si tratta solo di tenere a mente da dove si parta, dove si vorrebbe arrivare e che cosa si può realizzare anche durante il percorso, non solo all'arrivo. Per questo mi è parso opportuno evidenziare, con uno spirito critico ma costruttivo, gli interessi diversi fra aziende e consumatori.

    Flavia: il libro di Goleman non l'ho letto, ma lo metterò in lista d'attesa. Mi viene da dire che se in un mercato qualcuno vende a un prezzo superiore a quello "di equilibrio", quel prezzo non è un equilibrio, ma in effetti viene lucrato un profitto privo di giustificazione economica, che deve scomparire. Detto questo, come sai, apprezzo lo sforzo creativo, tanto più apprezzabile in un mondo che avrebbe tanto bisogno di cambiamenti e che invece è sempre troppo immobile... In questo caso credo si tratti di provare a spostare il confine fra lo spazio delle communities e quello delle aziende, ma alla fine un confine ci dovrà pur sempre essere. Sono davvero curioso di seguire lo sviluppo di questa storia. Non dubito che di montagna ne scalerete un bel po'!

    Desian: anche tu tocchi un punto importante. Per quanto a volte la libertà di scelta dei consumatori sia limitata, c'è quasi sempre la possibilità di cambiare fornitore. Non scomoderei il filosofo se non per dire che il plusvalore cui fai cenno, è per lui (e non solo) qualcosa di reale, a differenza del surplus di cui parlo io, che è puramente teorico. Chiaro che, comunque, vi siano delle similitudini anche spiccate nella misura in cui c'è una parte che, sfruttando un vantaggio (competitivo, informativo, di forza negoziale), può penalizzare l'altra.

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Online dal 10 aprile 2009