martedì 23 giugno 2009

Creatività e disciplina

Gli Studi di Chopin sono la dimostrazione definitiva della sua grandezza creativa.

Spesso si associano alla creatività la spontaneità e la fantasia.
Disciplina è invece diventata una parola desueta, dall’accezione negativa, impopolare.
Sembrano termini antitetici, ma credo sia un’associazione di idee molto scorretta. L’esperienza mi insegna che la creatività, per svilupparsi, va accompagnata da una grande disciplina.

L’immagine dei creativi con la dote di sfornare idee brillanti e originali in quantità, istintivamente, rapidamente e senza sforzi apparenti, refrattari alle regole e agli schemi mentali e comportamentali seguiti dai più, è invece molto diffusa e in voga.

Creativo è chi riesce a inventare qualcosa di nuovo: un’opera d’arte, un prodotto, un servizio, un modo di risolvere un problema o di svolgere un compito.
Tipicamente la creatività richiede la capacità di osservare la realtà che ci circonda e i problemi da affrontare con una prospettiva diversa dal solito, ma questa capacità non si sviluppa spontaneamente, se non fino a un certo limite.
Sono la curiosità e la volontà di leggere, di conoscere cose nuove e in apparenza distanti dalle attività abituali, a permettere alla mente di immaginare nuovi percorsi, nuove relazioni fra nozioni, situazioni, esigenze, problemi e soluzioni. Di “farsi venire” idee.

Il desiderio di imparare e studiare sempre di più, di autoeducarsi direi io, di “fare formazione permanente”, come direbbe qualche consulente, richiede impegno, costanza, metodo. In una parola: disciplina.

Così come disciplina è necessaria per abbandonare una strada che non porta a nulla, anche quando se ne sia già percorso un lungo tratto, magari con fatica e con le migliori intenzioni.

Molti individui e organizzazioni, oggi, trovano nell’irrigidimento burocratico una illusoria protezione dall’incertezza e dagli insuccessi.
Ciò soffoca le migliori capacità delle persone, il loro desiderio di creare, costruire, riuscire, e confonde l’accezione positiva di disciplina con quella, negativa, di rigidità, controllo e segregazione.

Per una reazione altrettanto sbagliata, si scambia la voglia di sfuggire alle regole, ad un lavoro di studio e analisi accurato su cui fondare proposte e decisioni, con la creatività, come se quest’ultima rappresentasse il mezzo per liberarsi da sovrastrutture pesanti e da norme e prassi che, benché migliorabili come tutto, spesso sono opportune.

Raramente troviamo l’istinto dietro alla creatività, e mai superficialità.
La leggerezza e l’eleganza dei risultati sono il frutto di un lavoro duro e rigoroso.

Anche nel campo dell’arte, l’importante componente della fantasia si innesta su una base di conoscenze ampia, solida e multidisciplinare. Da qui nasce la capacità di ragionare in modo originale e trasversale, di cogliere spunti e stimoli da direzioni inattese.

Creatività non è vuota apparenza, non è sregolatezza, non è evasione, né furbo espediente.
Disciplina non è costrizione, né forzatura o privazione della libertà.

Oggi impegno e creatività sarebbero necessari, mentre la superficialità, la fuga dalle responsabilità e la ricerca delle scorciatoie dominano.
Anche ricordarsi del significato di poche, semplici parole può essere utile.

venerdì 19 giugno 2009

True colors

“Papà, qual è il tuo colore preferito?”

“Papà, ti piace più il grigio o l’arancione?”

“Papà, preferisci il rosso o il nero?”

“Dipende. Mi piacciono tanti colori, ma dipende dall’oggetto e dall’occasione di cui stiamo parlando. Ad esempio, un abito grigio è molto bello ed elegante, mentre il cielo grigio è meno bello di un cielo azzurro.”

“No. L’arancione è il mio colore preferito, in tutti i casi.”

Quando penso al modo in cui gli adulti accettano di piegare metri e principi a seconda delle situazioni, talvolta fino al punto di diventare “utilizzatori finali” di una morale distorta, mi domando se non sarebbe opportuno ritornare, almeno in parte, alla visione del mondo spontanea e un po’ dogmatica dei bambini.

domenica 14 giugno 2009

Che cosa si dà a un figlio?

Che cosa si dà a un figlio? Le risposte alla domanda possono essere molteplici e tutti i genitori partono con i migliori propositi.
Recentemente, mi sono trovato di fronte ad una piccola riflessione concreta.

Re aveva cominciato a mostrare un crescente interesse per la sua bici e a manifestare il desiderio di andarci più spesso e senza rotelle, come i suoi amici.
Così, in uno dei weekend di maggio trascorsi a Milano causa figli malati, ho smontato le rotelle e l’ho portato ai giardini per imparare.

Non è bastata un’ora di tentativi e l’atteggiamento dell’allievo non è stato esattamente collaborativo (in pratica non pedalava nemmeno).
Allora, per evitare confusione e imbarazzi, si è deciso di proseguire le lezioni nella corsia dei box di casa nostra.
Siamo andati avanti ancora varie volte, la sera, al rientro dal lavoro.

Da parte mia, è servita tanta pazienza e la volontà di sopportare caldo e mal di schiena.
Re ci ha messo le decisioni di superare la paura di cadere, e di ascoltare, finalmente, le istruzioni del papà.
Alla fine, è riuscito ad imparare a partire e a pedalare sempre da solo, perfino senza il classico sostegno sotto la sella.

Vederlo andare da solo, su una bici ormai piccola, e procedere incerto, a volte a zig zag (ci vorrà ancora qualche sessione di perfezionamento), è stata una grande soddisfazione e una forte emozione.

I miei figli sono uno diverso dall’altro. Re è quello che, forse, mi assomiglia di più dal lato del carattere. Per questo, quando vedo in lui alcuni difetti che riconosco di aver avuto da bambino (e magari ancora oggi), come la testardaggine, la pigrizia, e soprattutto la tendenza a ritenere poco importante qualcosa che non riesca bene subito, vengo assalito dal desiderio di correggerlo.

Vorrei che mio figlio potesse vivere una vita più piena fin dalla sua infanzia, senza che si perda nulla solo perché fare una certa esperienza può costargli un po’ di fatica in più. Sarebbe stato utile anche a me, da bambino, essere spinto a superare più spesso questo limite.

Da quando mi sono sposato, ho cercato di dare a chi vive con me quello che non ho avuto: una vita regolare, con dei ritmi magari intensi, ma ben scanditi, con una separazione netta fra lavoro e privato.
Una vita che non comportasse per Si bemolle sacrifici aggiuntivi rispetto al già gravoso impegno di gestire casa e lavoro prima, casa e famiglia poi, per “corrermi dietro”. E, per i bambini, il disagio di un padre dalla presenza rara, irregolare e magari distratto. Fino ad ora penso di esserci riuscito.

Quello su cui non avevo mai riflettuto bene è quanto sia importante e difficile provare a non dare qualcosa ai miei figli. E non mi riferisco ai famosi “no”, tanto necessari ai bambini.
Mi riferisco a tutto ciò che posso trasmettere loro implicitamente e inconsapevolmente con i miei comportamenti: difetti, debolezze e limiti caratteriali.
Pecche che da adulto si possono gestire e tollerare, ma che, seminate in un bambino, possono svilupparsi in modo imprevedibile e magari irrecuperabile.

Dovrò lavorare ancora molto, ma sono contento di essere riuscito a trasmettere a Re il desiderio di superare i suoi piccoli limiti per raggiungere un obiettivo e di darsi una disciplina per controllare, uno per volta, gli aspetti critici del suo comportamento.

Ce l’ha fatta da solo: il suo papà al suo fianco, pronto ad aiutarlo e a sostenerlo, non poteva né avrebbe voluto sostituirsi a lui, neppure nei momenti di maggiore fatica.
E quando ci siamo guardati negli occhi dopo la pedalata finale, credo che avessimo lo stesso sorriso disegnato sul volto.

domenica 7 giugno 2009

Una poesia

Qualche anno fa, mia sorella mi ha fatto conoscere questa poesia.
La pubblico proprio nel giorno in cui lei affronta un’importante nuova sfida, e io le auguro ogni bene.

È una lirica adatta a genitori, figli, alle persone che si amano, che lavorano, e a tutti coloro che si impegnano per le cause importanti nelle proprie vite.
Mi piace molto e la condivido volentieri.


Scaffolding

Di Seamus Heaney (premio Nobel per la letteratura 1995)


Masons, when they start upon a building,
Are careful to test out the scaffolding;

Make sure that planks won’t slip at busy points,
Secure all ladders, tighten bolted joints.

And yet all this comes down when the job’s done
Showing off walls of sure and solid stone.

So if, my dear, there sometimes seem to be
Old bridges breaking between you and me

Never fear. We may let the scaffolds fall
Confident that we have built our wall.


Per chi avesse poca dimestichezza con l’inglese, azzardo una traduzione. Non è poetica, ma spero almeno di poter rendere l’idea.


Impalcatura

I muratori, quando iniziano a costruire un edificio,
stanno bene attenti a collaudare l’impalcatura;

si accertano che le assi non scivolino nei punti critici,
fissano tutte le scale, stringono forte i bulloni delle giunture.

Eppure tutto questo viene giù quando il lavoro è terminato,
scoprendo le mura di sicura e solida pietra.

Così, mio caro, se a volte dovesse sembrarti
che i vecchi ponti che ci uniscono si spezzino,

non avere mai paura. Possiamo lasciar crollare l’impalcatura,
fiduciosi di aver costruito il nostro muro.

martedì 2 giugno 2009

Manager per se stessi

Mi è tornata in mente una frase di un mio amico, di qualche anno più grande di me, con il quale ho avuto il piacere di suonare qualche volta da ragazzo: “quelli che dicono di suonare per se stessi, lo dicono perché non sono capaci”.

Pensavo a tutti i manager che ho incontrato nel corso della mia carriera, sia in Italia che all’estero, con responsabilità e incarichi importanti.
È affascinante conoscere donne e uomini che hanno accumulato molte esperienze, intelligenti, preparati. Che detengono potere e lo esercitano. Si impara sempre qualcosa.

Vi sono, per fortuna, anzi per merito, numerosi casi di aziende di successo in tutto il mondo, dalle piccole alle blasonate multinazionali, i cui manager mantengono un atteggiamento umile, attento, pronto ad ascoltare opinioni, idee e suggerimenti che arrivano dall’esterno.
Persone consapevoli che il loro lavoro rappresenti una sfida continua con il mercato, con concorrenti intelligenti e capaci di presentarsi con buoni prodotti e servizi e idee valide.

Questi manager capiscono esattamente che il loro lavoro consiste nel prendere decisioni. Talvolta difficili, rischiose. Ma le devono prendere.
E si rendono conto che, se esercitato con diligenza, trasparenza, impegno e coraggio, proprio questo processo decisionale sta alla base del rapporto di fiducia fra i dipendenti di un’azienda e chi li governa, fra l’azienda e i suoi fornitori e clienti, fra azienda e investitori sul mercato.
Gli errori si possono sempre commettere e ci sono sempre sorprese negative dietro l’angolo, ma essere leader significa anche saper affrontare a viso aperto le situazioni critiche, senza nascondere la verità agli altri.
Altrimenti la fiducia e il senso di coesione per raggiungere un obiettivo comune cominciano a venire meno.

In tanti anni di esperienza, posso affermare che la capacità di un management di elaborare una strategia valida e di eseguirla senza sbavature, e la capacità di interpretare i segnali che provengono dalla realtà circostante per apportare le modifiche che si rendano opportune lungo il percorso, siano il più decisivo fattore di successo di un’azienda.

Incidentalmente, noto che questa considerazione vale in tutti i contesti: nella politica, in famiglia.

I genitori, ad esempio, devono saper esercitare una leadership che i figli non mettano in discussione. Con autorevolezza e dolcezza.
I figli, anche piccoli, capiscono che i genitori possono sbagliare, come tutti, ma devono avere fiducia nei loro comportamenti e nelle loro decisioni.
E la fiducia si conquista con l’impegno e con l’esempio, parlando e spiegando, facendo cose insieme, ma anche ascoltando molto i segnali che i bambini ci mandano.
Senza per questo sottostare ai loro capricci, senza diventare troppo “amici”, ma per assicurarci che percepiscano in ogni momento che, anche se alcune situazioni sono complicate da comprendere, i loro genitori cercheranno sempre di agire per il meglio, per il loro bene.

Purtroppo, a volte, il morbo dell’arroganza e dell’autoreferenzialità infesta i comportamenti e gli atteggiamenti di coloro i quali prendono le decisioni.

Così, ci sono manager che non si preoccupano più del mercato e dell’economia come all’inizio della loro carriera, perché, una volta raggiunto il successo, proprio in virtù di esso si ritengono infallibili e invulnerabili.

Cominciano ad ignorare concorrenti, fornitori e clienti che non solo meritano rispetto, ma che fornirebbero segnali importantissimi per non perdere la rotta.
E ai primi segni di difficoltà e cedimento, questi personaggi si trincerano dietro una cortina di ferro e non comunicano più apertamente con chi li circonda.
Richiedono una fiducia cieca nella loro capacità di decidere per il meglio. Condividono opinioni e informazioni con il loro “circolo di pari” in altre società anziché con chi, giorno per giorno, li ha aiutati a costruire, con fatica e soddisfazione, una storia di successo.
Poco alla volta, inevitabilmente, si perdono fiducia e rispetto. E leadership.

Questi manager smarriscono la propria identità, alla lettera, poiché non prendono più alcuna decisione utile a gestire l’organizzazione per cui lavorano.
Anzi, cercano in ogni modo di sottrarsi alla responsabilità di decidere per non esporsi alla possibilità di commettere errori.
Perché il rischio di danneggiare la propria reputazione con decisioni sbagliate, ma assunte in modo trasparente e sulla base di motivazioni e analisi convincenti, sembra troppo alto.
Diventano manager di se stessi e per se stessi, provano a sviluppare una carriera di visibilità e difesa della posizione più che una fondata sul fare, sul creare. Inutili, talvolta addirittura dannosi.

Non credo sia un caso se, in una situazione economica e politica come quella che stiamo ancora attraversando, leggiamo spesso di buonuscite faraoniche e paracadute dorati e raramente di progetti innovativi e coraggiosi di riforme e di impresa, per sfruttare la crisi come un’occasione per correggere errori ed eccessi del passato e creare un futuro che poggi su basi economicamente e socialmente più solide.

Parlo ogni giorno con persone che lavorano in aziende grandi e piccole in tutto il mondo e che prendono decisioni a vari livelli.
Esiste un senso di malessere diffuso tra coloro che non si trovano ai vertici ma quotidianamente mandano avanti un’azienda. Un malessere che nasce dalla mancanza di comunicazione, da un lato, ma da un altro, forse più profondamente, dal fatto che ci si concentri spasmodicamente sul presente senza occuparsi del futuro.
Dimenticando che quest’ultimo non è la sequenza o la somma di tanti brevi periodi, non è una navigazione a vista.
Paradossalmente, è la consapevolezza dello slancio creativo che serve per progettare un futuro, con i suoi rischi e le sue opportunità, a creare un timore tanto grande da cannibalizzarlo.

La voglia di agire e impegnarsi per costruire una prospettiva migliore sono presenti in molte persone.
I problemi del presente dovrebbero dare ai manager e ai leader di oggi la spinta per accogliere idee e sfide nuove senza resistenze, e, auspicabilmente, aprire la strada ad una nuova generazione di leader di domani.
Mi chiedo quanto tempo occorrerà ancora e quante barriere andranno abbattute affinché ciò accada.

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Online dal 10 aprile 2009