domenica 31 gennaio 2010

Viaggi e miraggi

Dopo una pausa piuttosto lunga, mi preparo ad un nuovo, breve, viaggio di lavoro negli Stati Uniti.

Ho avuto la fortuna di visitare vari paesi del mondo in gioventù, e quindi mi sono tolto la voglia di viaggiare intensamente, almeno per qualche anno ancora.

Ho sempre trovato curioso che nell’era delle tecnologie avanzate, delle videoconferenze, di Internet e Skype, la presenza in ufficio in date e ore improbabili e gli spostamenti fisici, meglio se da un continente all’altro, siano ancora ritenuti così indispensabili. È vero, in alcuni casi sono molto utili, soprattutto quando è richiesto un contatto umano diretto e frequente, ma quasi mai necessari.

Così, sentendomi sempre molto in colpa verso la famiglia, ho fatto tutti i viaggi davvero utili, soprattutto all’estero, organizzandomi giornate di lavoro intensissimo pur di rendere il più brevi possibile le assenze.

Ma il tarlo del perché il viaggio di lavoro sia ritenuto dai più un piacere o un privilegio continua a rodermi.

Forse perché salire e scendere dagli aerei fa status symbol? Mah.
Forse perché è un modo di mostrare che l’azienda investe su di te, e non sul tuo collega?
Forse le società preferiscono spendere un budget di viaggi che domani potrebbe essere tagliato anziché aumentare gli stipendi dei dipendenti di una frazione di quel budget, ma indefinitamente.
Forse i lavoratori gradiscono perché pensano di andare qualche giorno a farsi una specie di vacanza in alberghi migliori di quelli che pagherebbero di tasca propria, lontani dai doveri e dai controlli quotidiani, in posti che altrimenti non visiterebbero.

O forse dietro a tutto questo c’è il miraggio, la falsa oasi nel deserto.

Una rincorsa continua di nuove destinazioni, mete e obiettivi, per non dover mai fermarsi un momento a lasciare sedimentare le nostre conoscenze e esperienze.

Per non dover fare i conti con l’imperfezione e i limiti della nostra vita professionale e personale, non dover accettare con serenità che si possa essere felici anche con qualche difetto.

Per non crescere mai. Per non accettare che desiderare quello che si può avere e si può essere ci possa bastare, e che per ottenere di più dobbiamo sforzarci e migliorarci. Non basta un volo, magari low cost.

E’ vero: da molti dei miei viaggi, ho imparato tanto e sono contento di averli fatti. Mi hanno aiutato a scoprire aspetti nuovi di me stesso e del mondo. Ad esempio, una New York deludente da giovane turista è divenuta affascinante una volta riscoperta da adulto professionista.

Ma sono sempre stato più contento di quello che ho trovato tornando alla mia casa e al mio lavoro, condividendo esperienze e impressioni con chi mi aspetta ed è il mio punto di riferimento.

mercoledì 27 gennaio 2010

Gente che cambia il mondo sul serio

Le persone che cambiano davvero in meglio la vita e la storia di intere popolazioni ogni tanto passano anche a Milano e credo che molti Milanesi siano orgogliosi di ospitarle.

Un grande sogno che si fa progetto: liberare il mondo dalla povertà.

Il primo febbraio, al teatro Dal Verme, parlerà Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace, fondatore della banca Grameen, che ha introdotto il microcredito per le donne, liberando migliaia di famiglie dalla povertà in Bangladesh.

L’idea di prestare piccole somme, sufficienti ad avviare un’attività economica autonoma, alle donne del Bangladesh, contando sulla loro capacità di lavorare e di conciliare la vita professionale con quella familiare, e sulla loro volontà di onorare il debito, anche grazie a informali gruppi di solidarietà che in caso di necessità aiutano a restituire i prestiti puntualmente e con orgoglio, è geniale e rivoluzionaria. E dimostra che, in alcuni contesti di estrema difficoltà, sostituire il criterio della solvibilità con quello della fiducia può portare a grandi risultati.
Per inciso, prestare altrettanto denaro agli uomini non avrebbe sortito gli stessi effetti benefici, perché i profitti realizzati dalle donne sono tipicamente utilizzati per il sostentamento delle famiglie, mentre gli uomini rischiano di sperperare buona parte dei loro guadagni.

L’ammirazione che nutro per Yunus è enorme ed è un bene che il suo entusiasmo, il suo spirito costruttivo, la sua capacità di progettare e fare crescere una realtà solida e concreta stiano trovando una sponda anche in alcuni protagonisti dell’economia mondiale, a cominciare da Franck Riboud della Danone.

Il business sociale esiste ed è qui. Dopo “Il banchiere dei poveri”, una lettura e una riflessione consigliabili a tutti.

giovedì 21 gennaio 2010

Scuola, famiglia, paese

Che la scuola italiana versi in uno stato pietoso è noto. Ma fa sempre un brutto effetto vederlo scritto nero su bianco, ad esempio qui. E sembra difficile pensare che gli sforzi di insegnanti e genitori volenterosi possano raddrizzare una situazione che talvolta porterebbe anche i più motivati ad un lento sfinimento.
Il fatto curioso, però, è notare come la concezione della scuola pubblica tenda sempre più verso il modello di un parcheggio a basso costo per la prole, facendola magari divertire, che verso quello di un luogo in cui i nostri figli imparano a conoscere persone, cose, idee e a stare in mezzo agli altri.
Anche se sono alla terza iscrizione alla scuola dell’infanzia, e dovrei aver fatto il callo a certe aberrazioni, non considero le storture meno gravi.
Così si può scoprire che, ad esempio, a Milano, i punteggi favoriscono le famiglie con un solo figlio e due genitori che lavorano, rispetto a quelle in cui un solo genitore lavora ma i figli sono tre.
Con tutto il rispetto per le coppie in cui padre e madre lavorano fuori casa, a quanto pare, dalle nostre parti, solo le famiglie con almeno quattro figli meritano un genitore a tempo pieno per i primi anni di vita dei bambini e il diritto ad un posto nell’asilo di zona senza l’assillo della graduatoria. Forse qualcuno è rimasto alla concezione del lavoro casalingo e del ruolo della madre da pubblicità anni ’80, in cui le “casalinghe” facevano shopping nel quadrilatero della moda con sei chihuahua al guinzaglio mentre, il marito al lavoro, la servitù si occupava di casa e bambini.
Logicamente, in quest’ottica, la graduatoria penalizza relativamente i figli di due disoccupati, i quali hanno tutto il tempo di spupazzarsi il bambino con calma: in questo caso, a che serve la scuola?
Però avrei dovuto immaginare che saremmo arrivati a questo punto. Dopo tutto, questo è un paese in cui, spesso, i genitori considerano 20 euro un esborso normale per ricaricare il cellulare di un ragazzino, ma eccessivo per acquistare un libro. O trovano naturale spendere 50 euro in baby sitter se decidono di uscire a cena, ma considerano un furto pagare la stessa somma per un’ora di lezione privata di greco, latino o matematica se un figlio ha bisogno di aiuto nello studio. Perché, semplicemente, imparare, sapere non hanno valore.
Quindi, perché non cominciare a smantellare l’edificio dalle fondamenta? Dopo tutto, potrebbe essere uno dei rari casi in cui la politica si dimostra reattiva ad interpretare i segnali che giungono dalla “società civile”.

sabato 16 gennaio 2010

Donkey, Mario e io

Da bambino, il mio gioco preferito era il Lego. Mi piacevano anche macchinine, robot, giochi di società, ma fino a quando computer e videogiochi non sono entrati nella mia vita, a 10 anni, le costruzioni con i variopinti mattoncini danesi, nelle loro varie versioni, sono state la mia principale fonte di svago.

A distanza di tanti anni, mi fa ancora piacere aiutare i miei bambini a seguire le istruzioni per montare case, auto, elicotteri di Lego, ed è ancor più bello vederli costruire da soli ciò che la loro fantasia suggerisce, elargendo magari qualche piccolo consiglio pratico per la realizzazione.

Oggi, con Sol a una festa, Re e io ci siamo dedicati ai giochi da grandi.
Dopo una partita a Trivial di riscaldamento, di fronte al computer acceso, mi è venuta l’idea di chiedergli: “ti piacerebbe vedere i videogiochi che il papà faceva da bambino”?

Lui ha ovviamente accettato con entusiasmo e così, grazie a Internet, ha potuto vedere e provare una carrellata di classici da casa e da bar.

E allora via con Pac-Man, Space Invaders, Galaga, Asteroids, Scramble, Joust, Frogger, gli esordi di Mario Bros, ma soprattutto il mio preferito: Donkey Kong, con un giovane Mario che ricorda solo vagamente il Super Mario di oggi, la sua fidanzata dell’epoca, Pauline (ora sostituita da Peach), rapita da un Donkey Kong irriconoscibile precursore, dai modi grezzi, il torace nudo e la grafica primitiva, di quello di oggi, dal ciuffo sbarazzino, i modi ingentiliti e la cravatta.

Purtroppo ho trovato online solo il primo dei quattro livelli giocabile, così Re si è dovuto accontentare di qualche immagine e descrizione sommaria delle difficoltà dei successivi e del modo in cui Mario potesse sbarazzarsi dello scimmione alla fine del quarto, per ricongiungersi con la sua bella.

Sol, nel frattempo rincasato dalla festa, si è subito unito a noi. Entrambi, oltre a divertirsi molto, faticavano a credere che anni fa i videogiochi e i computer fossero così come glieli ho mostrati.

E in effetti, forse, i miracolosi risultati dei lifting di (Super) Mario e Donkey Kong fanno sentire il peso del tempo passato più di qualche ruga sul viso e qualche capello bianco.

mercoledì 6 gennaio 2010

Dinamiche

È ancora quel momento dell’anno. Si smontano albero e decorazioni di Natale e domani ricominciano scuola e lavoro. Non che la famiglia di note ne abbia una gran voglia.

La casa riprende il suo aspetto abituale e lo manterrà fino al prossimo dicembre. I bambini, invece, sembrano diversi. Quasi che la ripresa dei ritmi normali permettesse di fissare come in una fotografia i cambiamenti che, nell’incessante scorrere del tempo, passano inosservati.

Vedo Mi che cresce e si diverte con i suoi giochi vecchi e nuovi, curiosa e sveglia, in modo sempre più consapevole. La vedo inseguire i suoi fratelli maggiori, che la aspettano e la invitano a partecipare alle loro scorribande e rendersi complice delle loro marachelle. Ride, scherza, ma sa anche farsi rispettare e difendere i suoi spazi e i suoi giochi con le unghie, quando è necessario, e non le piace affatto essere presa in giro.

Osservo Sol che non sembra proprio vivere come un problema l’essere il figlio di mezzo. Si divide fra i giochi “da grandi” con il fratello maggiore e la vicinanza che la sorellina ricerca spesso e lui concede volentieri. Vivace, spiritoso, tenace, razionale, Sol sta maturando anche fisicamente e sta diventando un bambino grande, con i suoi giri di amici e la sua vita autonoma.

Da ultimo, il più cambiato, Re. Tutt’altro che asciutto, come da un Re ci si attenderebbe, è molto compreso nel suo ruolo di figlio maggiore, di ometto che sta crescendo e che si prende cura dei fratellini e qualche volta si preoccupa anche per i genitori, di scolaro diligente che si impegna e fa molto bene, ma a volte si lascia scappare qualche distrazione di troppo, e non se lo perdona.
Iperbolico, responsabile, brontolone, affettuoso, scontroso, simpatico, impaziente, compagnone, brillante, convinto di avere sempre ragione, salvo poi rimuginare in ombrosa solitudine sulle lezioni che la vita gli impartisce, Re assomiglia pericolosamente (per lui) a suo padre Do minore da piccolo. Speriamo che anche lui riesca, crescendo, a smussare qualche spigolo del carattere e, se proprio deve cambiare, diventi un bel Do diesis, e non tignoso come un Fa.
La luce che brilla nei suoi occhioni verdi quando sorride allegro mi pare un buon segnale.

martedì 5 gennaio 2010

Economista o mago?

Si commenta da sé.

Ieri, al telegiornale, mi è capitato di ascoltare il Papa assimilare gli economisti ai maghi.

Sono colpito, perché l’economia è una scienza e in tanti anni di studio non mi sono mai accorto somigliasse a un oroscopo.

Certo, se il lavoro consiste nel fare previsioni, è possibile sbagliare. Soprattutto quando l’orizzonte temporale per capire se si abbia ragione o torto termina prima della morte, e non dopo.

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Online dal 10 aprile 2009