giovedì 9 settembre 2010

Il buon uso di noi

Il mondo di oggi ci offre enormi opportunità. Siamo ricchi, ben nutriti, culturalmente e tecnologicamente evoluti. Ma ci pone anche grandi dilemmi etici, sociali, politici ed economici. Come gestire e sanare le diseguaglianze? Come dare alle nostre azioni una connotazione morale virtuosa, oltre a quella pratica di raggiungere un determinato scopo? Come agire nel mondo, sfruttandone le potenzialità, ma senza abusare delle sue risorse naturali e umane? Come dare un senso alla nostra vita non solo a livello di microcosmo individuale, ma anche a livello collettivo, politico, e come trovare modalità di decisione e rappresentanza democratiche efficaci e giuste?

Questi alcuni dei temi toccati dal filosofo Salvatore Natoli nel suo bel libro Il buon uso del mondo. Una lettura interessante e scorrevole, che di rado assume il registro forbito del testo di filosofia, e che ripropone i problemi e i dubbi che quotidianamente dobbiamo superare nel prendere le decisioni grandi e piccole della vita accostando ad essi le riflessioni dei grandi filosofi e pensatori del passato (incluso, con mia grande soddisfazione, Schumpeter). In effetti, cambiano le forme e le tecnologie, ma ben poco il cuore e la mente dell’uomo. Solo che, con il passare del tempo, il miglioramento degli strumenti che ci consentono di essere praticamente in ogni luogo del globo in ogni momento ha reso la posta in gioco più alta: l’impatto di una decisione sbagliata o meno che ottima del nostro sistema politico, o di produzione e consumo, può ripercuotersi su un gran numero di individui, in molte parti del mondo.

Ragione, responsabilità, rispetto, comunità, virtù, altruismo sono parole che mantengono una drammatica attualità e Natoli fa molto bene a calarle come tema intellettuale ed etico nel contesto della quotidianità.

Lo scadimento della nostra vita pubblica è ben riassunto da Schumpeter (Capitalismo, socialismo e democrazia, riportato da Natoli, pag. 227): “… basta osservare l’atteggiamento diverso che l’avvocato prende verso la causa che è chiamato a difendere e verso le affermazioni di fatto di un giornale politico. Nel primo caso egli si è preparato, attraverso un lungo lavoro ispirato a un fine preciso e stimolato dall’interesse per la professione, a valutare l’importanza dei fatti e, sotto uno stimolo altrettanto potente, concentra nel contenuto della causa le sue capacità, la sua intelligenza, la sua volontà. Nel secondo, non si è preoccupato di “qualificarsi”; non sente lo stimolo di assimilare i dati informativi o di applicarvi quei principi di critica di cui pur conosce tanto bene il modo di servirsi; è insofferente dei ragionamenti lunghi e complicati”. Ma Natoli nel suo libro ci conforta perché per ogni questione spinosa ci mostra che i buoni esempi e le buone idee esistono già: basta applicarli.

Mi piace ricordare questa lettura estiva, di teoria e di sostanza, in una giornata in cui a Milano si celebra la Vogue Fashion Night Out, un importantissimo uomo politico afferma che l’avvocato Ambrosoli “se l’andava cercando” e in un periodo in cui il sistema dell’istruzione pubblica viene demolito a pezzi sempre più grandi.

sabato 4 settembre 2010

Paul Auster and I

Quest’estate sono riuscito a leggere con soddisfazione, per quantità, qualità e varietà.
Per quanto riguarda la prosa, due sono gli autori a cui mi sono principalmente dedicato (e non ho ancora finito): Paul Auster e Philip Roth. Se del secondo è già stato detto tutto il bene possibile, incluso che si tratti del moderno erede di Dostoevskij, e condivido i giudizi positivi, mi sono scoperto, con grande sorpresa, dipendente dal primo.
Dopo una pausa di anni dalla lettura della Trilogia di New York, mi sono dedicato a Il libro delle illusioni, Follie di Brooklyn, La musica del caso. Ho attaccato da pochissimo Leviatano e sono già risucchiato nel gorgo.
Non so bene perché. Saranno i personaggi complessi e realistici, pieni di sfaccettature e ombre, mai completamente definiti, per lasciare spazio all’immaginazione e stimolare la riflessione, per lasciare un vuoto piccolo, ma ampio quanto basta, perché la fantasia e l’interpretazione del lettore possano muoversi entro il confine immaginifico tracciato dall’autore. O forse saranno le vicende che oscillano fra una concretezza quasi naturalista e intrecci talmente fantasiosi da sfiorare l’assurdità e in cui il caso gioca sempre un ruolo cruciale.
O forse ancora, la risposta al perché i libri di Paul Auster mi attraggano così magneticamente, anche quando non si tratta di capolavori, la dà l’autore stesso, mettendola sulle labbra di uno dei protagonisti di Leviatano, scrittore, a proposito del possibile nesso fra le esperienze vissute e i propri romanzi: “Poi, liquidando l’argomento una volta per tutte, si lanciò in una diatriba comica contro i tranelli della psicoanalisi. Alla fin fine, niente di tutto questo ha importanza. Il solo fatto che Sachs abbia negato l’esistenza di un nesso non significa che non ci fosse. Nessuno può dire cosa dà origine a un libro, tantomeno la persona che lo scrive. I libri nascono dall’ignoranza, e se continuano a vivere dopo che sono stati scritti, lo fanno solo nella misura in cui sfuggono alla comprensione” (pagg. 44-45).
Mi piace divorarli, i libri, quindi è frequente che, a distanza di tempo, i dettagli delle storie, i nomi dei personaggi, i luoghi, mi scompaiano dalla memoria, ma il segno di fondo, quello che un romanzo lascia dentro in profondità, mi è sempre rimasto fin da ragazzo. L’estate 2010 me la ricorderò per un bel pezzo. E la mia Auster-dipendenza sarà placata dai suoi numerosi titoli ancora da leggere.

________________
Online dal 10 aprile 2009